La scomparsa di Mariantonia Del Vecchio
memoria vivente della Costa della Mènola a Montecalvo Irpino

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Domenica, 24 luglio 2011, all’alba, ci ha lasciato Mariantonia Del Vecchio, vedova di Silvestro Siciliano e madre di Angelo, che ha raccolto la sua cultura orale. Era “’Ntunètta” per i tanti compaesani che la conoscevano. Avrebbe compiuto 89 anni il primo ottobre prossimo.
In febbraio 2006 era stata colta da un ictus, che le aveva in parte offuscato l’infallibile memoria, e da allora era costretta in carrozzella. Viveva in campagna col figlio Mario, o Pompilio, come è noto in paese, accudita amorevolmente dalla nuora Maria e dalle nipoti Elisa e Silvana.
Era una donna minuscola ma energica e iperattiva, e, prima di soccombere al male, un paio di volte la settimana percorreva le vie storiche del paese, con una cesta sul capo, per rifornire, a seconda delle stagioni, i suoi clienti, che poi erano anche i suoi amici, di frutta e verdura. E con loro chiacchierava e scambiava notizie. E, forse, era questo, prima che il procacciamento di un reddito di sussistenza, il vero motivo della frequentazione delle case delle persone. Per alcuni, i prodotti più attesi e graditi erano “li fficu paravìsu” (fichi del paradiso), in autunno, e la “minèst’asciàta”, verdura spontanea, raccolta ai margini del terreno coltivo, composta da cicerbite, borragine, papaveri, cicoria selvatica, tarassaco e finocchietto, in inverno e primavera. Oltre che naturalmente ortaggi di tutti i tipi, coltivati nel suo orto.
 
La sua comare Olga, anche lei contadina ed ex ortolana, dice che con “Comma ‘Ntunètta” sparisce la storia della Costa della Mènola, la contrada a sud del centro storico del paese, da cui la via scendeva nel vallone della Ripa della Conca, dove fino ad inizio Novecento si trovava un antico mulino ad acqua, e le pendici del colle erano, sino a 30-40 anni fa, coltivate da far pensare all’eden. Ora i campi sono abbandonati e la boscaglia avanza dappertutto. Ma se per ogni contrada, c’è una famiglia o una persona che meglio ne riassume e rappresenta la storia ultima, lei era non solo legata a questi luoghi, battuti da stuoli di contadini, ciucai e braccianti, ma era la memoria vivente anche delle contrade Frascino, Cesine e S. Vito, perché lì si era cresciuta ed era vissuta prima di maritarsi.
Rimasta vedova nel 1949, a 27 anni, con due figli, Angelo di tre anni e Mario di dieci mesi, decise di non rimaritarsi, per non far maltrattare i figli da un patrigno. E vestì il lutto per oltre dieci anni. E si ammazzò di lavoro, visse con orgoglio e fu educatrice severa.
Chi l’aiutò un po’ a coltivare la terra fu suo padre Fedele, fino alla fine degli anni Cinquanta. Poi, venendo grandi i figli, anche la sua vita è diventata meno sacrificata e ha potuto godere dell’affetto di cinque nipoti e in seguito cinque pronipoti. Ma frutta e verdura ha continuato a distribuirle in paese, accompagnandole con le uova delle proprie galline.
In famiglia, era una grande raccontatrice di “cunti”, oltre che cantatrice di “canzùni cacciàti” (canti pettegoli), canti funebri, sacri, sociali e politici. Dopo aver dismesso il lutto, riprese a cantare durante i lavori nei campi.
Il figlio, Angelo Siciliano, ha cercato di raccogliere, in circa trenta anni di ricerca, tutto il “Patrimonio immateriale” materno, che, unitamente a quanto ha potuto ottenere da un’altra decina di informatori dialettofoni montecalvesi, rappresenta un archivio della civiltà agro-pastorale in Irpinia.
Le persone vivono, danno testimonianza di sé con la propria opera e con l’esempio, poi muoiono. Esse sopravvivono in tutti coloro che ne conservano la memoria affettiva o amicale. Alcune, se quel che dicevano o cantavano è stato raccolto, lasciano una “memoria affabulatoria” di un mondo arcaico, ormai tramontato.
Al caro Angelo l’affettuoso abbraccio delle redazioni di TeleMontecalvo e del Corriere dell’Irpinia.
 L’articolo è uscito nel sito www.TeleMontecalvo.it ed il 3.8.2011 sul quotidiano Corriere dell’Irpinia. È anche nel sito www.angelosiciliano.com.
 
                Montecalvo Irpino, 31 luglio 2011                                                 Mario Aucelli
 
 
Si allega “Il canto della morte”, di Mariantonia Del Vecchio, repertato a Montecalvo Irpino, dal figlio Angelo Siciliano, nel 1988.
 
 
               LU CANTU DI LA MORTE*
 
Ij’év’a spassu cu la mìja tulènda,
tre giùvini mi purtàji pi ccumpagnìja.
Truvàji n’ombra ‘mmiézz’a la vìja:
«Ti scungiuru pi la parte di Dìju,
dimmi, chi siete voi?».
 
«Sóngu la Morte chi m’ha ccrijàtu Dìju,
nun pòrtu riguardu pròbbij’a nnìsciùnu!».
 
«E ìju tre mmiliùni ti dunarrìja,
abbèstica da li mmani tóji scapparrìja!».
 
«Ma si la Morte s’accurdàss cu ddinàri,
cchjù rricca di la Morte chi sarrìja?».
 
«Iju cu ttre milioni mi frabbicarrìja
nu palazz’accant’a lu maru.
Tre guardiani mi ci mittarrìja
e vidi, Morte, si puoi minìni!».
 
Dòppu tre giorni
lu gióvini si mittìv’a llèttu,
sùbbitu tre mmiédici
si mmannàv’a cchjamàni.
 
Unu dicètt: «Che puzzóre,
pigliàtilu da dint’e ccacciàtilu da fóre!».
N’atu dicètt: «Dumàn’ìma fa la festa!».
N’atu dicètt: «S’adda suttirràni!».
 
«Mannàtim’a cchjamà li mìji parènti!».
 
«Addìj’addìj’e ccóme jà puzzilènte!».
 
«Addìj’addìj’oru e argintarìja,
ìm’arrivintà nu puójinu di purcarìja!
Addìj’addìju, ricchézz,
ìm’arrivintà nu puójinu di munnézz!».

 

 
                  IL CANTO DELLA MORTE
 
Passeggiavo con la mia allegra brigata,
tre giovani mi portavo per compagnia.
C’imbattemmo in un’ombra per strada:
«Vi scongiuro in nome di Dio,
ditemi, chi siete voi?».
 
«Sono la Morte e mi ha creato Dio,
non ho riguardi per alcuno!».
 
«Ed io di tre milioni ti farei dono,
purché tu mi risparmi!».
 
 
«Ma se la Morte s’accordasse per denari,
più ricca di me chi ci sarebbe?».
 
«Io con tre milioni mi costruirei
un palazzo in riva al mare.
Tre guardiani vi collocherei
e ti sfido, o Morte, prova ad entrarci!».
 
 
Trascorsi tre giorni
il giovane si mise a letto,
subito tre medici
fece convocare.
 
Il primo esclamò: «Che fetore,
sollevatelo e da dentro portatelo fuori di casa!».
Il secondo assicurò: «Domani faremo la festa!».
Il terzo confermò: «Ormai è da sotterrare!».
 
«Mandate a chiamare i miei parenti!».
 
«Oh Dio Dio, com’è puzzolente!».
 
«Addio addio, oro e argenteria,
diventeremo un pugno di porcheria!
Addio addio, ricchezze,
diventeremo un pugno d’immondizia!».

 

 
 
* Questo canto, se ve ne fosse bisogno, dimostra che la Morte, tra l’altro sempre presente nella cultura contadina, non scende a patti con alcuno, nemmeno con i ricchi e i potenti. Con costoro, anzi, essa prova piacere nell’assumere un atteggiamento sadico imponendo la propria regola, che è uguale per tutti.
Trattandosi di un canto d’ambito rurale, anche se il linguaggio tende talvolta all’aulico e ad una vaga costruzione colta, si può cogliere in esso uno spirito di rivalsa della classe contadina nei confronti di signori, ricchi e potenti.
Singolare l’uso del numero tre, ripetuto per ben sei volte nel canto. In occultismo esso ha valenza sacra e magica, e rappresenta la luce.
Anche nelle religioni è stato spesso adoperato: come triade in quella induistica, con Brahma, Shiva e Vishnù; come Trinità nella cristiana, con Padre, Figlio e Spirito Santo.
Nel nostro caso, tuttavia, esso non solo non riesce a salvare il protagonista da una fine misera, ma costui è anche fatto oggetto di dileggio, dai toni grotteschi e teatrali, da parte di tre medici, vale a dire coloro cui la società affida una parte delle proprie speranze di allontanare il più possibile il momento fatale. Qui la funzione dei seguaci d’Esculapio, nonché eredi d’Ippocrate, appare come quella d’implacabili becchini.
La terribilità del contenuto di questo canto può essere comparata con quella ancora riscontrabile nelle scene delle danze macabre che, nei secoli passati, erano affrescate, dentro o fuori dalle chiese, a monito per la gente, sotto la suggestione e il terrore d’epidemie di colera o peste, che mietevano un enorme numero di vittime tra la popolazione esistente.
È un canto sicuramente di metà Ottocento (lo cantava mia nonna materna, Libera D’Agostino, nata nel 1880), ma è probabile che sia pervenuto a noi dai secoli precedenti. Non si ha notizia di altri canti di questo tipo che siano stati raccolti in Irpinia.
Da segnalare le parole tulènda, col significato d’allegra brigata, combriccola o compagnia intrigante, e abbèstica, per purché.
Canto di Mariantonia Del Vecchio, 1922-2011, contadina; registrazione del 1988, trascrizione, traduzione e annotazione del figlio Angelo Siciliano.

                Crotone, 20 giugno 2006                                                                                Angelo Siciliano

 

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