Tradizioni
Quando il Padreterno creò il mondo
Quando il Padreterno creò il mondo volle
fare le cose giuste: diede trent'anni di vita all'uomo, trenta all'asino, trenta
al cane…
Passò il tempo. Un giorno l'asino andò da Dio e gli disse:
-
Questa vita io non la sopporto. Non ce la faccio a resistere tanti anni portando
sulla schiena some pesanti, prendendo bastonate dalla mattina alla sera e
mangiando solo fieno.
Dio lo accontentò: gli tolse vent'anni e li diede
all'uomo che intanto non si lamentava. Poco tempo dopo si presentò dal Signore
il cane.
- Non ce la faccio proprio - protestò anche lui - a sopportare
questa vita: devo stare sempre legato a una catena e mangiare soltanto un pezzo
di pane duro, e un osso, quando capita.
Dio tolse vent'anni anche a lui e li
aggiunse alla vita dell'uomo. Ed è così che da allora l'uomo vive trent'anni da
cristiano, fino a che è scapolo; vent'anni da asino, dal momento che prende
moglie; e vent'anni da cane, allorché, divenuto vecchio, è costretto a stare
accanto al camino o all'ospizio, mentre tutti gli gridano
addosso.
da Fifi di Aniello Russo, Mediaworld, 1999
La famiglia Citrulo
C'era una volta un uomo stupido, di nome
Citrulo, che aveva sposato una donna due volte più stupida e aveva avuto una
figlia assai bella, ma stupida tre volte tanto.
Un giorno, mentre la ragazza
stava affacciata alla finestra, la vide un giovane forestiero che fu subito
colpito dalla sua bellezza e se ne innamorò. Il giovane non ci pensò su due
volte e corse dal padre della ragazza a chiedere la mano. Al padre non parve
vero di maritare la figlia e invitò a pranzo il giovane pretendente.
- Va' a
prendere il vino, - disse Citrulo alla figliola - mentre tua madre prepara da
mangiare.
La ragazza gettò di sfuggita un'occhiata al giovane e le piacque.
Prese la brocca e scese in cantina. Spillò la botte e, mentre la brocca si
riempiva, cominciò a sognare:
- Appena mi sposo, avrò una casa tutta mia,
cucinerò per mio marito… poi avrò un figlio, lo allatterò, lo fascerò…; e se un
giorno cadrà ammalato? Potrebbe anche morire! Ah, figlio mio, cuore di mamma… -
e scoppiò a piangere: ogni lacrima era grossa quanto un pugno.
La brocca era
ormai colma, ma continuandoa scorrere dalla botte il vino cominciò a versarsi
per terra.
Siccome la ragazza non tornava, la madre scese in cantina e,
appena vide inginocchiata davanti alla botte la figlia scossa da tremiti di
pianto, le corse vicino e chiese cosa le fosse accaduto. E lei rispose:
-
Ma', io ho pensato questo: se mi marito e ho un figlio, metti che si ammala e
muore… Povero figlio mio, come devo fare?
- Ma tu che dici? Mio nipote
morto! Creatura mia, cuore di nonna… - prese a piangere anche lei: si batteva il
petto e si strappava i capelli.
Passò del tempo e Citrulo si preoccupò.
Lasciato il giovane, andò anche lui in cantina. Già dalle scale sentiva i loro
lamenti; e laggiù trovò la moglie e la figlia che piangevano, mentre il vino
aveva ormai allagato tutto il pavimento.
- Ci pensi, Citrù, - disse la moglie
- se nostra figlia si sposa e ha un figlio, poni che muore… Povera creatura,
cuore di nonna!
- Piccolino mio, fiore di nonno tuo! - fece anche lui.
Il
giovane, intanto, stanco di aspettare scese anche lui in cantina. Si affacciò
sulle scale e li vide tutt'e tre abbracciati, che facevano:
- Bello di mamma…
- Cuore di nonna…
- Fiore di nonno…
Chiese il motivo di tanto dolore
e, quando quelli gli raccontarono il fatto, disse:
- Ah, e io avrei dovuto
vivere con una moglie simile e con tali suoceri? Meno male che vi ho scoperti in
tempo. Addio, in Paradiso ci vedremo!
da Leggende
religiose di Aniello Russo, Avellino, 1999
Il garzone di Cristo
Divenuto adulto, Gesù andò a vivere da solo. Aveva
una vigna e con quella campava. Una volta bussò al suo cascinale un giovane che
cercava lavoro.
- Io ti prendo come garzone - gli disse Gesù -, ma a una
condizione: che ti faccia i fatti tuoi, qualunque cosa tu veda, qualunque cosa
tu senta.
Il giorno appresso il garzone comincia il suo lavoro. Quando il
sole è alto arriva una vecchia nel campo e si arrampica su un fico. Il garzone
la lascia fare, ma la osserva e si accorge che sceglie e porta alla bocca i
fichi più piccoli e acerbi, scartando quelli grossi e maturi.
- Che fai, zia
cara? Ci sono tanti fichi maturi, e tu ti cogli quelli duri, che cacciano ancora
il latte?
La sera si ritirò nella masseria, dove Gesù lo aspettava:
-
Racconta che cosa hai fatto oggi.
- Gesù, m'è succiésu nu scàmpulu, accussì
e accussì…
- E tu che le hai detto?
- Le ho detto: "Bella femmina, perché
invece non cogli i fichi maturi? "-
- Mi avevi giurato di non immischiarti
nei fatti degli altri…
- Be', è vero! Da domani mi coprirò gli occhi.
Il
giorno dopo, il garzone lavorava nella stalla, quando vide una scrofa grassa e
grossa distesa sull'aia. Dodici porcellini, deboli e macilenti, si affannavano a
portare davanti alla madre, rotolandole, delle grosse zucche. La scrofa mangiava
e mangiava, e non si saziava mai. Pensò il garzone: "Invece di mangiarsele loro
che sono tanto denutriti!" Stette a guardare per un poco, fino a che non ne poté
più e si precipitò a fermarli. Più tardi venne il padrone:
- Oggi che mi
racconti? -
- Gesù mio, tutte le cose strane capitano qui: ho visto dei
porcellini magri che portavano da mangiare a una scrofa grassa da scoppiare…
Tieni e tieni, alla fine sono corso a sgridarli. -
- Ma come, hai ancora
ficcato il tuo naso nei fatti che non ti riguardano?
- Eh sì, hai ragione!
Oltre a coprirmi gli occhi, mi turerò anche le orecchie.
Passò del tempo, e
una volta vennero nella vigna del Signore i muratori per costruire un deposito.
Dopo aver alzato le pareti, dovevano mettere il solaio. Mentre zappava il
garzone alzò gli occhi e vide i muratori che volevano infilare di traverso le
travi nel muro, anziché di punta. Gli vennero a mente le parole di Cristo e
tacque. Si trattenne, si trattenne, ma poi lasciò tutto come si trovava, e corse
là:
- Quanto siete incapaci! Le travi vanno ficcate così… - e mostrò
come.
Prima che calasse il sole venne Gesù:
- Che lavoro hai fatto oggi?
Il giovane gli riferì tutto quanto aveva fatto nella giornata. Alla fine
esclamò:
- Padrone mio, oggi mi è capitata un'altra stranezza: ho visto i
muratori che volevano infilare le travi di piatto…
- E tu? -
- Io gli ho
insegnato come andava fatto.
- Ah, garzone mio, tu ancora non hai capito
come va il mondo?
- E come va, padrone?
- La vecchia sull'albero di fico
è la Morte, che i giovani si prende e i vecchi no.
- E la scrofa grassa con
i porcellini magri?
- I porcellini siete voi garzoni, che portate ai padroni
il meglio del raccolto: e mentre quelli ingrassano, voi morite di fame.
- E
i muratori?
- Quelli? Quelli sono la giustizia, che non fa mai una cosa
dritta!
da Canti
religiosi di Aniello Russo, Avellino 1999
San Cilardu, quann'era uagliònu
Il canto si sviluppa come una biografia, attraverso quei fatti del Santo che più hanno colpito la fantasia popolare. Da questo canto è facile rilevare come Gerardo sia stato il Santo dei poveri, di tutta la gente misera del Meridione, che lo venera come uno di loro. Altri canti, simili a questo, riportano un altro aspetto di Gerardo, la sua stranezza, la sua pazzia, cioè quel tratto terreno che avvicina di più l'uomo a Dio. "Musicalmente presenta un caratteristico quarto grado alterato, che già abbiamo notato in altri canti. L'attacco è in levare (anacrusico). Armonicamente oscilla tra le due sole tonalità di tonica (la bemolle maggiore) e sopratonica (si bemolle maggiore)" (G. Ressa).
San Cilardu, quann'era uagliònu,
e si faceva la
cummunionu.
San Gerardo, quand'era guaglione,
si prendeva
la comunione,
E la cummunionu sanda,
e san Cilardu s'è fattu
Sandu.
la comunione santa,
e San Gerardo si è fatto
Santo.
San Cilardu, quann'era piccìnu,
e si faceva la
risciplìna.
San Gerardo, quando era piccino,
si imponneva
la disciplina,
E la risciplina sanda,
e san Cilardu s'è fattu
sandu.
la disciplina santa,
e Gerardo si è fatto
Santo.
E s'è fattu sandu davveru,
e san Cilardu ri
Capusselu.
E si è fatto Santo davvero,
San Gerardo di
Caposele.
San Cila', oj san Cilardu,
e quanda graziu che
sai fa'!
San Gerardo, o, san Gerardo,
quante grazie che
sai fare!
E fàmmela pur'a me-nu
E ti la cercu cu carità.
E fanne una a me,
te la cerco per
carità.
San Cilardu, quandu si' bellu!
E che ngi fai
ind'a sta cappella?
San Gerardo, quanto sei bello!
Che ci fai in
quella cappella?
E nui chi simu vunuti,
e quanda graziu
c'avim'avutu!
Noi che siamo venuti
quante grazie abbiamo
avuto!
E vui ca mo' ngi jati,
e quanda graziu ca
truvàti!
Voi che ora ci andate
quante grazie che vi
trovate!
Statti bbuonu, san Cilardu miu,
e l'annu chi
venu turnam'a vvunì'.
Statti bene, San Gerardo mio,
l'anno che viene
torniamo a venire.
E si nun ci vurimu ri visu,
ngi vurimu a lu Paravisu.
Ma se non ci vediamo di viso,
ci vedremo in
Paradiso.
E si nun ngi vurimu qua,
ngi vurimu a
l'eternità.
Se non ci rivediamo qua,
ci vedremo
nell'aldilà.
da Almanacco religioso di Aniello Russo, Avellino 1999
1 Martedì FEBBRAIO
Venunore: ore 15.00 Ventiquattrore: 18.00
Il giorno di Candelora venivano benedette le candele, cui si attribuivano virtù protettive contro le tempeste,
contro la grandine, contro la siccità… Ma venivano
accese anche quando un cristiano entrava in agonia.
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2 mercoledì Candelora
s. Maria delle Fratte, patrona di Castelbaronia
Candelora ha ispirato vari proverbi (24)
A Cennelora, o jocca o chiove,
viernu è già
fore.
Respunnìvu la àtta:
- Viernu è nzin'a san Marco! -
Lu viecchio
azànno lo ìreto:
- Viernu nu' passa si nu' bbène s. Vito.
La janàra fece
sta citto tutti:
- None, vierno è nzino a ca rura! -
A Candelora, o fiocca o piove,
l'inverno è
ormai fuori.
Intervenne il gatto:
- L'inverno dura fino a san Marco!
Il vecchio levando il dito:
- Non passa l'inverno, se non è san
Vito.
Ma la ianàra mise a tacere tutti:
- No, l'inverno è fino a che
dura!
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3 giovedì San Biagio
Patrono di Mugnano del Cardinale e Pietrastornina
Le ciambelle di pane, benedette nel giorno di san Biagio, proteggono chi ne mangia dal mal di gola per tutto l'anno. Il rito della benedizione era propiziatorio e riguardava anche gli animali; infatti, si benedicevano nella stessa occasione l'avena e il foraggio. (10)
Il lupo
A lo tiempo ca 'e zoccole purtàvene
l'acchiàli
e facévene l'amore co' tutti l'animali...........
Un tempo non era come oggi: gli animali
avevano la parola, e i loro cuccioli nascevano con gli occhi aperti; i bambini,
invece, venivano alla luce con gli occhi chiusi, e non li aprivano che dopo
quaranta giorni. Le bestie parlavano e si capivano pure con le persone, perché
avevano lo stesso linguaggio.
Alla fine di giugno tre giovani mietitori,
falce in spalle, partono dal loro paese in cerca di lavoro, Camminando
camminando nei campi, a ogni masseria che incontrano si fermano e chiedono al
proprietario se ha bisogno di operai a giornata. Finalmente, dopo due ore di
luce, se li prese un contadino che cercava braccia robuste per mietere le sue
messi. Si accordarono sul compenso e subito i tre amici si misero al lavoro. A
calata di sole, il padrone tornò e li condusse in un pagliaio:
- Qui
dormirete la notte. - disse loro senza scendere da cavallo.
Dopo aver
consumato il pasto, i tre, che erano sfiniti per il viaggio a piedi e per la
fatica della prima giornata, si stesero sulla paglia a riposare. Ormai erano
scese le ombre della notte e tutt'intorno al pagliaio era buio, Spenta la
lanterna, furono avvolti dalla completa oscurità. Prima di chiudere gli occhi,
uno dei tre amici saltò su a dire:
- Ehi, ma voi non ci avete pensato? E se,
mentre stiamo a dormire, viene il lupo? Avete portato un'arma con voi? Io ho qui
con me la doppietta... - e la sollevò per controllare se era carica.
Proprio
in quel momento arriva un lupo. E' consumato dalla fame e, a sentire le loro
voci, si ferma dietro il pagliaio. Non gli sono sfuggite le ultime parole. E
pensa: "La doppietta? A me non ha mai fatto paura! Un guizzo e scampo il colpo."
All'interno del pagliaio il secondo compare ribatte:
- Io, invece, ho
sempre la scure a portata di mano: se un lupo si arrischia a entrare, farà i
conti con questa!
Il lupo, che stava sempre acquattato là dietro, ghignando
disse tra sé: "Ah, ah... la scure! Chi vuole impressionare quest'altro? Prima
ancora che l'agguanti, gli ho azzannato la gola!"
I primi due compari si
volsero insieme al terzo, che non aveva armi:
- E tu come ti difendi dal
lupo? -
- Col cazzo! - rispose secco questo, rimanendo tranquillamente
disteso.
Il lupo, che stava già per lanciarsi dentro il pagliaio, si
trattenne a sentirlo: "Il cazzo? E questa mò che arnese è?" Stette un po' in
forse, se attaccare o no. Alla fine, per paura di quell'arma sconosciuta,
rinunziò. Si allontanò strisciando sull'erba e, solo allorché si sentì protetto
da una siepe, si levò sulle zampe, e via di là di corsa!
Alle prime luci
dell'alba era al sicuro nel bosco. Prima di arrivare alla sua tana, vide una
vecchia carica di anni che raccoglieva rami secchi. Si fermò e da lontano le
disse:
- Zia, non aver paura. Tu mi devi togliere una curiosità... -
- Che
c'è? Dimmi pure. - fece la donna levandosi ritta.
- Sai dirmi che razza di
arma è il cazzo? -
- Il cazzo? Uh, figlio mio, arma più possente al mondo
non c'è! Ti auguro di non vedere mai, neppure in sogno, quell'aggeggio! -
-
E che mai è? -
La vecchia si solleva la veste e gli mostra l'inguine:
-
Che è? La vedi la piaga che tengo qui? Ce l'ho da quando quell'arne-se mi menò
un colpo sessant'anni fa... e da allora non arriva più a sanare! -
da Racconti erotici di Aniello Russo