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IL
DOPO SCOTELLARO: TRASFORMAZIONI EPOCALI
NEL
MONDO CONTADINO MERIDIONALE
Percorrendo in
auto le strade del Mezzogiorno d’Italia, in Irpinia, Puglia,
Basilicata e Calabria ci s’imbatte spesso in antiche
masserie e case agricole abbandonate. I loro muri
perimetrali resistono ancora alle ingiurie del tempo, ma i
tetti sono in parte o in tutto sfondati. È la conseguenza
dell’abbandono, a seguito dei notevoli cambiamenti
succedutisi, anche nel mondo contadino, nella seconda metà
del Novecento. Le masserie, le Regiae massariae, erano il
sistema d’organizzazione feudale dell’agricoltura,
introdotto nel XIII secolo dall’imperatore Federico II,
giunto sino a noi a metà Novecento. Ad occhio, s’intuisce che
alcune di quelle masserie dovevano essere splendide, quando
erano abitate e funzionanti, con centinaia di ettari di
terra coltivata. Ancora oggi se ne può immaginare il decoro
e la vitalità. Orgogliosi dovevano esserne i massari, che di
solito ne erano gli affittuari, perché i proprietari, nobili
o borghesi, risiedevano in città. I massari, che giravano a
cavallo o col calesse (sciarabàllu), da quelle
case-aziende gestivano, da padroni assoluti, stuoli di
lavoratori ingaggiandoli nelle piazze dei paesi. Qui si
radunavano i braccianti (jurnatiéri), che accorrevano
talvolta anche da paesi lontani, per offrire le proprie
braccia, dove si presumeva che vi fosse lavoro a sufficienza. Alcuni
dei lavoranti per i massari, per la verità solo una piccola
minoranza, erano assunti a metà agosto, con contratto
annuale, e prendevano servizio l’otto settembre successivo.
Si trattava di ualàni (bifolchi, bovari),
lavuratóri (uomini in grado di svolgere differenti tipi
di lavori), serve, picuràli e purcàri (pecorai
e porcai). A parte le serve, erano detti tutti uarzùni
(garzoni) e facevano ritorno alle proprie case ogni quindici
giorni (quinnicìna), per rinsaldare il rapporto
affettivo familiare, per la pulizia personale e la
biancheria pulita. Lo ualànu era il capo dei
dipendenti del massaro. Ne aveva la responsabilità, era
pagato meglio degli altri, ma si alzava all’una di notte,
per avviare le mucche al pascolo, e di giorno arava la terra
con un aratro (pirticàra) tirato da due buoi
aggiogati (rétina, parìcchju di vuóvi). Grave
era lo sfruttamento del lavoro minorile sia nelle campagne
che nelle botteghe artigiane. Già dall’età di cinque o sei
anni, i minori, senza distinzione di sesso, erano obbligati
a collaborare nel lavoro dei campi con i propri familiari.
Alcuni maschietti erano affidati dalle proprie famiglie ai
massari, come uarzùnciéddri, e lavoravano per anni
interi come pastorelli. La loro paga annuale era costituita
di solito da un maialino, che era ritirato dalla famiglia di
appartenenza. Crescevano da analfabeti e tornavano a casa
dalle proprie madri, solo in occasione delle feste religiose
importanti che si tenevano in paese. Anch’essi potevano
cambiare padrone a metà agosto. I dipendenti assunti per un
anno intero erano detti salariati fissi, perché avevano
diritto a ricevere vitto e alloggio dal massaro. Percepivano
il salario per l’intero anno, sia in denaro che in beni,
cioè grano, formaggio e maialini da fare allevare alle
proprie consorti. Alcuni uarzùni ottenevano, dal
massaro, la concessione di qualche pezzo di terra a
mezzadria (tèrr’a la parte), da far coltivare alle
proprie consorti. I braccianti, invece, erano assunti a
tempo determinato, manodopera per i lavori più vari:
zappatori, mietitori, raccoglitori, potatori, boscaioli
ecc.. Erano pagati a giornata. Un’altra figura rilevante era
il fattore. Egli curava gli interessi, facendone spesso le
veci, del grande proprietario terriero che aveva scelto di
dedicarsi personalmente alla coltivazione delle proprie
terre, senza cederle a un massaro. Le colombaie delle
masserie sono disertate da decenni dagli abituali
frequentatori, i colombi. In qualche edificio rurale
abbandonato, se i locali a piano terra sono ancora agibili,
li si adopera come deposito di macchine e attrezzi agricoli,
e non è raro notare, all’esterno di queste strutture,
qualche carcassa malconcia di vecchia auto, in disuso e non
rottamata, monumento involontario della civiltà tecnologica
che è mutata velocemente. Molte case rurali furono edificate
e consegnate ai contadini con i terreni agricoli
circostanti, in attuazione della Riforma agraria. Spesso i
criteri spartitori erano clientelari, ma quelle case furono
abbandonate quasi subito, non appena ci si rese conto che le
condizioni di vita erano misere, a causa di un reddito
insufficiente, anche per una minima sussistenza. Oggi sono
dei ruderi e rappresentano la parte più evidente degli
avanzi della civiltà contadina, che ha tentato di innovarsi
soccombendo alla modernità. Testimoniano di epoche in cui il
70-80% della popolazione, per lo più analfabeta, traeva
sostentamento dalla coltivazione della terra e in parte
dall’allevamento del bestiame. Sono i resti di una civiltà
secolare, probabilmente millenaria, a cui l’archeologia
sociale e l’antropologia, se non l’avessero già fatto,
potrebbero rivolgere con profitto la propria attenzione. Il
tempo provvederà a cancellare tutto, sotto l’azione
disgregatrice degli agenti naturali.
La società del
passato era divisa in classi e i contadini ne
rappresentavano quella più umile. Ma lo stesso mondo
contadino era variegato e diverse categorie o sottoclassi lo
caratterizzavano. C’erano i contadini che abitavano in
paese, che si recavano in campagna solo per lavorare la
terra da cui traevano sostentamento, e quelli che vivevano
stabilmente in campagna (zacquàli di fóre), nelle
case rurali. Anche i massari vivevano in campagna, ma
avevano più potere e sostanze, e in genere stavano
economicamente meglio di tutti. I contadini che coltivavano
poca terra, di proprietà o in affitto, per poter vivere
dovevano integrare il proprio reddito lavorando anch’essi
presso terzi come braccianti, per alcune settimane l’anno.
C’erano poi i braccianti e i garzoni. I primi vivevano in
assoluta precarietà, con la speranza di essere scelti e
ingaggiati come lavoratori giornalieri, mentre i secondi
potevano contare su un salario annuo sicuro. Alcuni pastori
allevavano un certo numero di pecore e capre. A volte erano
le mogli, le pastore, a condurre le bestie al pascolo lungo
i sentieri erbosi comunali o demaniali. Però dovevano fare
attenzione a che le siepi private confinanti non fossero
danneggiate dalle proprie capre, perché il rischio era di
doverne rispondere ai proprietari. Costoro, in caso di
danno, constatato alla presenza di testimoni, potevano
ricorrere alla perizia di un perito agrario e pretendere
d’essere risarciti (purtà lu ‘ngigniéru e ffà pavà lu
cignàle). Lungo il tragitto le pastore filavano la lana
cardata, che tenevano avvolta in un grembiule (vandisìnu),
adoperando il fuso, e la sera avrebbero sferruzzato per fare
le calze. D’inverno, per scaldarsi, portavano con sé un
recipiente metallico (cuócciu o buàtta) con
del fuoco acceso dentro, che alimentavano con rametti secchi
raccolti strada facendo. I ciucai si guadagnavano da vivere
effettuando trasporti per i piccoli borghesi e quei
contadini che non possedevano bestie da soma. Tra tutte
queste sottoclassi c’era una netta distinzione, seppure
invisibile, e talvolta tra i loro appartenenti si
consumavano vere e proprie intolleranze, anche umilianti. La
promozione sociale riguardava in genere solo i figli dei
massari che, grazie ai mezzi paterni, si potevano dedicare
con successo agli studi e avere così modo di accedere a
posti di rilievo nella società, e diventare dei piccoli
borghesi. Da decenni è scomparsa l’aia. Fino a metà
Novecento su di essa si procedeva alla trebbiatura (scugnàni)
dei cereali, con l’ausilio delle bestie: asini, cavalli o
buoi che pestavano i covoni trascinando, agganciato a una
lunga corda, un pesante masso (tufu). Si lavorava in
mezzo al baccano e alla confusione, secondo una tradizione
consolidata. I contadini più poveri, la trebbiatura la
facevano a braccia, adoperando forconi e lunghe mazze
ricurve in punta, con cui battevano i covoni. Spesso le
famiglie si aiutavano vicendevolmente, non solo tra parenti,
e il tutto favoriva un clima di socializzazione e
solidarietà. Pian piano anche al Sud si erano andate
diffondendo le trebbiatrici meccaniche (màchini ca
scógnunu). All’inizio del Novecento arrivarono quelle
funzionanti a braccia, con una grande ruota che faceva da
volano. Poi furono introdotte quelle a motore. Questo era
autonomo e alla trebbiatrice era collegato con una lunga
cinghia di trasmissione. In tutti i casi una moltitudine di
uomini, donne e ragazzi lavoravano alacremente sull’aia, per
giorni o settimane, ammazzandosi di fatica. Si respirava
polvere e si sudava tanto con la canicola di luglio e
agosto, per mettere da parte il raccolto dei cereali per
l’inverno e anche la paglia per le bestie. Poi, a partire
dagli anni Settanta, le mietitrebbiatrici autolivellanti, in
grado di operare anche sui declivi delle colline, hanno
risolto ogni problema con la mietitrebbiatura effettuata
direttamente nei campi coltivati e la consegna, ai relativi
proprietari, dei sacchi pieni di grano a domicilio. Da
decenni sono scomparse le spigolatrici, affascinanti figure
ottocentesche, celebrate nei dipinti e in qualche opera
letteraria. Esse raccoglievano tra le stoppie le spighe
cadute ai mietitori e ne facevano mannelli da battere poi
con mazze o forconi, per separare il non molto grano dalla
paglia. Sono scomparse queste attività, gli animali e tutti
gli attrezzi adoperati. L’emigrazione, che agli studiosi ha
fatto scrivere d’esodo biblico, è stata una valvola di sfogo
fondamentale per le masse contadine meridionali, che
aspiravano a migliorare le proprie condizioni di vita e
conquistarsi una qualche promozione sociale, tra insidie e
difficoltà, in città o nazioni sconosciute, spesso ostili
agli immigrati. Essa ha solo accelerato un declino
inevitabile, perché la terra, a differenza dell’industria e
degli altri settori economici emergenti, non offriva
prospettive di sviluppo allettanti. Con la progressiva
scomparsa del dialetto, e di quel poco che ancora sopravvive
della civiltà contadina, l’opera si va completando. Un
capitolo si sta chiudendo definitivamente. Ne serberanno
memoria gli archivi, le biblioteche e i musei
etnoantropologici. È mutato anche il paesaggio rurale in
questi decenni, sia per l’introduzione di nuove colture che
per l’uso diffuso delle macchine agricole che hanno
sostituito il lavoro umano. L’aratro meccanico ha
contribuito a rendere spogli d’alberi i campi destinati alla
cerealicoltura, alla coltura del tabacco e dei pomidori. In
qualche caso ha anche cancellato antiche necropoli, situate
poco profonde rispetto al livello del terreno coltivo. Su
molte colline sono stati piantati alti pali con eliche. Sono
i simboli nuovi dell’energia rinnovabile e di un ambiente
meno inquinato. I centri storici di molti paesi, anche a
causa dei terremoti, sono stati aggrediti dal cemento armato
e il loro aspetto è notevolmente mutato rispetto ai decenni
passati. Col tempo i braccianti sono spariti come categoria
di lavoratori. Nel secondo dopoguerra erano stati tutelati
nei loro diritti dalle Camere del lavoro, organizzate a
livello comunale. Poi avevano subito per anni il triste
fenomeno del caporalato. In questo caso erano dei mediatori
illegali, i cosiddetti caporali, ad assumerli e
accompagnarli sul posto di lavoro, per conto dei datori di
lavoro. A fine giornata, i caporali trattenevano per sé una
parte della paga spettante ai lavoratori. Sono spariti pure
i ciucai, i cavallai, i carrettieri e i carbonai. Anche
altre categorie sono scomparse e con esse i mestieri. Basti
pensare a tutta la moltitudine d’artigiani che animavano i
vicoletti e i quartieri dei paesi: calzolai, sarti,
falegnami, secchiai, ramai, stagnari, fabbri, maniscalchi
ecc.. Il falegname (falignàmu, mastu) era una di
quelle figure che, con la sua opera, scandiva la vita della
comunità, dalla nascita alla morte. Creava culle, madie,
tavolieri, infissi, mobili e bare. La maggior parte dei
mobili oggi è prodotta industrialmente e ci si approvvigiona
al Nord. Sono spariti i cantinieri e le cantine, luoghi
della mescita del vino, dove gli uomini si riunivano la sera
o nei pomeriggi festivi. Chiassosi, giocavano alla morra o
alle carte, scordandosi delle angustie quotidiane.
D’inverno, col bel tempo, si sfidavano a bocce negli slarghi
dei paesi. Al momento che più contava, quello della bevuta,
pur di far dispetto a compagni ed avversari, tracannavano il
vino senza preoccuparsi dell’ebbrezza. I ragazzi si
accontentavano di molto meno. Si disputavano con la trottola
(strùmmulu), col gioco sotto il muro (azzécch’a
mmuru) o col gioco delle mattonelle (stacciu),
bottoni o monetine. Da decenni sono sparite le trattorie e
le taverne nei paesi, dove si poteva mangiare o alloggiare,
anche con il proprio asino, mulo o cavallo, per poche
centinaia o migliaia di lire. Girando per i mercati
settimanali e le fiere dei paesi, non si riscontra più un
attrezzo agricolo, tipo zappa, falce, accetta, roncola o
coltello che sia prodotto ancora a mano, con perizia e
maestria, da un fabbro nella sua fucina. Ciò che si può
osservare o acquistare sono i prodotti seriali
dell’artigianato industriale, di rozza e frettolosa fattura,
e materiale scadente. Anche in questo è scomparso o mutato
il mondo contadino e il suo indotto. Da alcuni decenni la
plastica, nelle sue svariate forme, ha rivoluzionato la
produzione d’oggetti d’uso quotidiano che, grazie al basso
costo, hanno trovato larga diffusione e invaso anche il
mondo contadino, contribuendo a renderlo inautentico o
fasullo. Un’altra figura emblematica che è sparita da
decenni nei paesi del Sud, è il banditore, divulgatore
ufficiale di fatti e notizie che potevano interessare la
comunità. Dopo un lungo squillo di tromba, egli comunicava
ai compaesani l’arrivo in paese di qualche venditore
ambulante con mercanzie a prezzo conveniente, il nome della
cantina che aveva esposto la frasca per la mescita del vino
nuovo, gli obblighi amministrativi da ottemperare su
disposizione del sindaco ecc.. Di solito il banditore era un
tipo pittoresco, sul cui conto si scherzava e ironizzava. Ma
la sua era una funzione importante e socialmente utile, ed
egli era autorizzato dal Comune d’appartenenza. I contadini
non cantano più durante i lavori agricoli. Non si fanno più
serenate alle innamorate e le mamme non intonano ninne nanne
ai loro bambini. Del ricco e vario patrimonio canoro
popolare rimane poco, grazie a qualche volenteroso gruppo
folk locale, che si esibisce nelle sagre di paese. Sono
spariti anche i poeti contadini e i poeti pastori, i soli
capaci d’inventare nuovi canti e melodie, con cui
affascinare gli ascoltatori. Sono molti decenni che per le
fiere e le feste dei paesi non passano più i cantastorie.
Verso il 1970, a Palermo sparirono i cantastorie e i “cuntisti”,
cantori e raccontatori di fatti eclatanti di cronaca nera,
mafia, briganti e cavalieri. Alla stessa epoca risale,
probabilmente, la scomparsa di queste figure popolari veri
e propri artisti di piazza anche nel resto della Sicilia.
Nelle sagre paesane non c’è più traccia o memoria dei
venditori di fortuna. Essi esibivano un pappagallino su un
trespolo che, tra tanti foglietti piegati e accostati
ordinatamente in una scatoletta, a comando ne sceglieva uno,
su cui c’era stampata “l’improbabile fortuna” di chi si
faceva scucire l’obolo per conoscere il proprio futuro. Sono
scomparsi anche i venditori di sorbetto, la cui materia
prima, la neve, era prelevata dai nevai (nivére)
allestiti, dopo le abbondanti nevicate invernali, in
appositi locali attrezzati di montagna. Figure emblematiche
del mondo contadino erano le fattécchje, i mavàri
e li masti d’attìja (fattucchiere, maghi,
guaritori). Ad essi si faceva ricorso per fatture d’amore o
di morte, per conoscere la propria sorte o quella d’un
figlio disperso in guerra, per guarire da qualche malanno (fa
‘ncantà nu male). Il malocchio (maluócchji) erano
in grado di toglierlo in molti, facendo cadere, in
successione, tre gocce d’olio d’oliva in una bacinella
d’acqua pura e recitando, al cospetto di chi se ne riteneva
vittima, qualche formula magica. Le janare, streghe
giovani e affascinanti, erano assai temute e molte
precauzioni e antidoti, come il sale cosparso per terra,
erano posti in atto per evitare che di notte esse
penetrassero nelle case, attraverso le fessure delle porte,
per importunare e ammaliare le persone in preda al sonno. Le
scope di saggina e i falcetti appesi all’interno delle porte
erano un diversivo perché si distraessero. Anche la presenza
spiritica era molto avvertita e temuta, e i verosimili
racconti sui fantasmi spaventavano nottetempo non solo i
bambini. Le mammane (vammàni) svolgevano una funzione
fondamentale. Si prodigavano per le gestanti contadine,
assistendole nel mettere al mondo i figli nelle dimore
povere e disadorne. Talvolta, in caso di gravidanze
indesiderate, aiutavano le donne ad abortire, infrangendo un
divieto perseguito dalla legge. Ma il mondo contadino era
capace di slanci e generosità impensabili. Buona parte dei
trovatelli (li figli di puttàna), affidati alla Sacra
Rota, era allevata da famiglie contadine che, data l’alta
moria di propri bambini per selezione naturale, li
prendevano in affidamento e li trattavano come i propri
figli legittimi, tirandoli su fino al compimento della
maggiore età. È rimasto poco o nulla di tutti quei
comportamenti ritualizzati che coinvolgevano le comunità
paesane nella gestione del lutto: veglia funebre, pianto
rituale e consolo. Tuttavia ancora permane la consuetudine
della veglia del defunto nella propria casa. Altrove la
morte è stata rimossa. Si muore in ospedale e le salme dei
defunti attendono negli obitori l’ora del funerale. Finalmente
è arrivata l’acqua potabile in quasi tutte le case, grazie
alla rete di distribuzione idrica, ma sono scomparse le
fontane pubbliche, o meglio quella funzione particolare di
utilità sociale, cui esse assolvevano nella società
contadina. Erano soprattutto le donne a recarsi alle fontane
(jévun’a l’acqua), sia per l’approvvigionamento
idrico che per fare il bucato. Questa consuetudine era di
fondamentale importanza per le piccole realtà. Consentiva il
dialogo tra le persone, che avevano così modo di
approfondire la conoscenza reciproca, facilitando la
circolazione di notizie e fatti riguardanti gli appartenenti
alla comunità. Le ragazze potevano cogliere l’opportunità di
farsi notare dai giovanotti e aumentare le probabilità di
trovare un buon partito. Sono pressoché scomparse, presso i
contadini, le usanze d’allevare e ammazzare il maiale,
panificare e cuocere il pane nel forno di famiglia,
adiacente alla propria abitazione. Se si va alla ricerca dei
sapori antichi e autentici della gastronomia meridionale,
riscoperta e rivalutata da diversi anni, come dieta
mediterranea, dagli esperti americani e inglesi del settore,
chi quei sapori li conobbe e non li ha dimenticati, si
accorge di quanto sia difficile ritrovarli oggi. Tuttavia
anche al Sud si cerca di stare al passo con i tempi e molti
prodotti locali sono salvaguardati col marchio doc o altre
forme di tutela, ma la strada, per migliorarne la qualità,
diffonderli e imporli sul mercato, appare comunque faticosa
e irta di difficoltà. Fino ad una ventina d’anni fa la
Lucania, più d’altre aree meridionali, conservava ancora
aspetti peculiari dell’arcaicità rurale e, per buona parte,
essa era ancora il mondo di Rocco Scotellaro. Ricordo che da
emigrato, scorrazzando d’estate per il Sud, visitavo Matera
e paesi come Melfi, Venosa, Lagonegro, Bernalda e vi
ritrovavo l’Irpinia della mia giovinezza. Quella degli anni
Cinquanta e Sessanta, quando le dimore trogloditiche erano
ancora normalmente abitate. Ad Acerenza, dove un anno portai
la mia famiglia per visitarne la cattedrale, che ancora mi
ricorda la chiesa di S. Chiara di Napoli, ritrovai quel
vivere simbiotico tra contadini e animali domestici, che
oggi si può riscontrare solo in qualche vecchia immagine
fotografica. Rocco Scotellaro, figlio di un calzolaio,
nacque nel 1923 a Tricarico, nel materano. Nel 1940-41 fu a
Trento, dove frequentò la seconda liceo classico presso il
Liceo “Giovanni Prati”, ospite della sorella Serafina
coniugata a un sottufficiale in servizio in quella città.
Ebbe un impatto traumatico con la realtà trentina. Pesava la
sua provenienza dal Meridione, ma riuscì lo stesso a
stabilire qualche contatto con alcuni socialisti locali. Il
suo docente d’italiano fu Giovanni Gozzer, che sarebbe
diventato preside, poi il primo provveditore agli studi del
Trentino del dopoguerra e, successivamente, ispettore
ministeriale per la Pubblica istruzione. Nel 1942, morto il
padre, Scotellaro fece ritorno a Tricarico e dovette
abbandonare gli studi universitari di Giurisprudenza.
Intraprese un’intensa attività politica e sindacale in
favore della classe contadina, affinché fossero riconosciuti
ad essa quei diritti da sempre negati, tra cui
l’assegnazione delle terre. Fu poeta, scrittore, politico e
sociologo della classe contadina. Come poeta si colloca in
una fase di passaggio del Novecento italiano, quando
l’ermetismo vede esaurirsi la sua carica vitale e il
neorealismo si avvia ad affermarsi. Scelse la lingua
italiana per esprimersi in versi, a differenza d’Albino
Pierro (1916-1995), poeta anche lui del materano, nato a
Tursi, che optò invece per il dialetto lucano protostorico.
Il suo italiano ricalca modi e forme proprie del dialetto.
Con accostamenti inconsueti del lessico e originali
metafore, la sua poesia rende l’idea dei rapporti di vita
aspri di paese e di campagna, in quegli anni cruciali di
rivendicazioni sociali e lotta per la conquista del lavoro e
della terra. Ha una forte connotazione antropologica, come
la prosa dei suoi romanzi, carica di dialettalità,
interiorità e senso storico per un mondo che si apre ai
cambiamenti, ma non promette certezze. Nel 1943 aderì al
partito socialista. Conobbe alcuni personaggi che sarebbero
stati per lui veri e propri maestri di vita: Carlo Levi
(1902-1975), confinato antifascista ad Aliano in Lucania,
medico, poeta, scrittore, autore di Cristo si è fermato a
Eboli, che rivelò al mondo lo stato di miseria e
abbandono del Mezzogiorno, pittore che l’avrebbe immortalato
nel grande affresco di Matera sulla civiltà contadina;
Manlio Rossi Doria (1905-1988), meridionalista ed
economista; Rocco Mazzarone (Tricarico 1912), medico e
sociologo.
Fu
organizzatore di lotte contro le disuguaglianze e le
ingiustizie sociali.
Con la lista
frontista dell’Aratro, fu eletto primo sindaco democratico
di Tricarico nel 1946. Fece arrivare l’acqua potabile nei
rioni poveri in cui mancava. Istituì l’ospedale, il secondo
della provincia di Matera, con attrezzature ospedaliere
donate dall’esercito americano e il libero contributo
finanziario dei tricaricesi. Ma gli avversari erano in
agguato. Subì due tipi di attacchi. Uno d’ordine culturale:
gli si rinfacciava d’essere un poeta decadente, per nulla
rivoluzionario, capace di mettere in rilievo solo gli
aspetti negativi del mondo contadino, tutto sommato una
realtà popolare passiva. L’altro era d’ordine politico.
Soprattutto Mario Alicata, esponente comunista, lo attaccava
accusandolo d’essere prigioniero, assieme a Levi e Rossi
Doria, del mito della civiltà contadina e di voler rendere
autonomo il movimento contadino da quello operaio. In realtà
le polemiche, che il suo operato suscitava, nascondevano
questioni e problemi di rilevanza nazionale che riguardavano
il ruolo degli intellettuali, il rapporto fra città e
campagna, l’alleanza fra operai e contadini. Si colpiva
Scotellaro, ma in realtà l’obiettivo era la linea di
pensiero del meridionalismo riformista. Risale a quell’epoca
la frattura, mai più sanata, tra i filoni delle concezioni
meridionaliste su come realizzare lo sviluppo nel Sud. Il
riformismo del primo dopoguerra d’uomini come Salvemini,
Gramsci, Rosselli e Gobetti sarebbe stato ereditato da
Ernesto de Martino, Manlio Rossi Doria, Carlo Levi, Tommaso
Fiori e Guido Dorso. Dopo di costoro, purtroppo, ci sarebbe
stato solo il vuoto. Scotellaro, da sindaco socialista, subì
anche l’onta dell’arresto con l’accusa di peculato. Per lui
fu un’esperienza umana, amara e durissima. Al processo che
ne seguì, fu assolto per non aver commesso il fatto e poté
essere rieletto sindaco nel 1948. L’interesse per la sua
attività politica, nuova per quei tempi, attirò in Lucania
intellettuali e studiosi. Arrivarono gli americani George
Peck e Friedrich Friedmann, per lo studio
socio-antropologico della realtà rurale lucana, e Adriano
Olivetti, imprenditore e intellettuale illuminato, che creò
l’associazione “Movimento di Comunità” per studiare e
tentare di risollevare le sorti di Matera. Ma Scotellaro non
si sentiva preparato adeguatamente, per affrontare le sfide
in vista dei cambiamenti che il secondo dopoguerra imponeva.
Ritornò a studiare, questa volta presso l’Istituto Superiore
d’Agraria di Portici, diretto dall’amico Manlio Rossi Doria.
Lì lo coglieva la morte nel 1953, per problemi cardiaci, tra
il dolore e la costernazione di tutti. Rocco Scotellaro ha
ricevuto più apprezzamenti e riconoscimenti dagli
antropologi e dai sociologi che non dalla critica
letteraria. Si è detto e scritto che, grazie ai suoi versi,
ai suoi romanzi e testi teatrali, alla sua azione politica e
all’indagine sociologica, i contadini sono entrati nella
storia. Io da quel mondo provengo e dubito che ciò sia
accaduto. Anche se così è stato, tali e tante trasformazioni
epocali hanno interessato il mondo rurale, dopo Scotellaro,
che i contadini ne sono usciti subito, forse per rifugiarsi
definitivamente in qualche museo etnografico. Il mondo
rurale di Scotellaro, a cinquanta anni dalla sua morte, non
esiste più. Esso si è trasformato nel tempo, si è
ammodernato sotto tanti aspetti, ma per motivi diversi non
si è sviluppato come ci si attendeva, anche perché le
riforme agrarie, attuate negli anni, sono in tutto o in
parte fallite. Non c’è più il latifondo, abolito per legge.
Non ci sono più i massari e le vaste proprietà terriere,
attorno alle masserie, sono state smembrate. Sono scomparsi
il patriarcato e il Sud feudale. Dell’occupazione delle
terre, delle manifestazioni, dei tanti scontri e delle lotte
aspre per la conquista del lavoro, anche con morti tra i
contadini e i braccianti basti ricordare Portella della
Ginestra, Montescaglioso, la Piana del Fucino, Avola
rimane memoria solo negli archivi, dove si conservano i
documenti e i filmati d’epoca. Non sono bastati la politica
della Cassa per il Mezzogiorno, i contributi e i sussidi
alle produzioni agricole, della CEE prima e dell’UE poi, ad
ancorare le nuove generazioni dei figli dei contadini
meridionali alla terra. Anche la cooperazione agricola,
quando si è cercato d’introdurla al Sud, senza la cultura e
la tradizione del Nord cooperazione bianca in Trentino e
rossa in Emilia , si è rivelata una trappola per i
contadini che vi avevano aderito. All’amarezza per una nuova
opportunità di sviluppo tradita, si sommava la beffa del non
pagamento dei prodotti agricoli conferiti dai soci alla
cooperativa. Se in passato un nucleo familiare contadino,
anche con diversi figli, riusciva ad essere autosufficiente
con una superficie di qualche decina di ettari di terra
coltivata, oggi ciò è impensabile e i giovani che ambiscono
a uno stile di vita dignitoso con un reddito soddisfacente,
ancora una volta sono costretti a cercarsi un lavoro
altrove.
In Lucania,
attualmente, si estrae il petrolio in Val d’Agri. A Melfi
c’è uno stabilimento della Fiat che produce bene. Qualche
allevatore di capre controlla i suoi animali col microchip.
L’agricoltura è praticata come sempre. I Sassi di Matera,
dichiarati dall’U.N.E.S.C.O. patrimonio dell’umanità da
salvare e tramandare, hanno ripreso da qualche anno ad
essere abitati e a riempirsi di vita, grazie anche agli
incentivi del Comune.
Quanto qui si è
elencato, attesta sicuramente aspetti importanti e positivi
dei cambiamenti della vita attuale in Lucania. Aspetti che
si potrebbero estendere in tutto o in parte al resto del
Meridione, ma essi attestano comunque uno sviluppo limitato,
che permane a macchia di leopardo e non riesce ad espandersi
diffusamente sul territorio.
I contadini
d’oggi, come quelli di ieri, sono i titolari delle proprie
aziende, ma le sfide, che il mercato globalizzato impone
loro, in quanto imprenditori, sono difficili da vincere.
Nonostante il clima si vada tropicalizzando, permangono
alcune aree d’eccellenza, per diverse produzioni agricole
nelle regioni meridionali.
In una realtà
complessa e dinamica come l’attuale, le informazioni
circolano velocemente, la competizione è agguerrita e non
consente errori nella programmazione e nel controllo della
propria attività produttiva, che va comunque armonizzata con
le direttive politiche di Bruxelles.
Le innovazioni
produttive sono imposte, da una parte dall’industria, che
fornisce le macchine e le nuove tecnologie, dall’altra dalla
domanda del mercato. Si produce ciò che gradisce il
consumatore e non ciò che piacerebbe al produttore, anche se
ci si adopera per orientare i consumi.
In questi anni
qualche mucca pazza, purtroppo, è stata riscontrata anche
negli allevamenti del Sud. I coltivatori devono fare i conti
con gli OGM, organismi geneticamente modificati, che il
mercato non gradisce, perché i consumatori li rifiutano o li
guardano con sospetto.
Di tanto in
tanto si scopre che l’ecomafia ha disseminato, sul
territorio meridionale, discariche abusive di rifiuti
altamente tossici provenienti dalle industrie del Nord.
Nella miniera di salgemma di Scanzano Jonico, ad oltre 800
metri di profondità, si voleva istituire il deposito
nazionale per lo stoccaggio di migliaia di tonnellate di
scorie e rifiuti radioattivi prodotti nel paese. Poi, dopo
le proteste e i blocchi stradali degli abitanti locali, il
sito è stato declassato. Verrebbe riconsiderato in futuro
come uno dei possibili depositi, da utilizzare assieme ad
altri sul territorio nazionale.
All’inizio del
XXI secolo il Sud, nonostante il clima favorevole, una
varietà ambientale unica e giacimenti culturali unici al
mondo, straordinari e allettanti, non riesce a svilupparsi
turisticamente come potrebbe. In cambio l’incuria,
l’ignavia, la carenza di controlli adeguati sul territorio e
certe miopie politiche, complice l’assenza di un’illuminata
lungimiranza, consentono che esso sia una sorta di
pattumiera d’Italia per i rifiuti e gli scarti industriali
più pericolosi.
È annosa la
carenza d’infrastrutture al Sud e solo da poco tempo si sta
cercando di porvi rimedio. Le reti stradali e ferroviarie
sono da sempre inadeguate o insufficienti, come pure i
servizi, perché ci si possa sviluppare adeguatamente.
Insomma permane rispetto al resto del paese e l’esito è
più sconsolante se il confronto lo si fa con i paesi europei
più avanzati un gap tecnologico e di sviluppo
difficilmente colmabile, nonostante l’alternanza dei
governi, le rituali promesse e i tentativi d’interventi sul
territorio che non hanno portato i frutti sperati.
A Rocco
Scotellaro, i suoi detrattori rinfacciavano di non aver
capito che il futuro della società era la classe operaia e
non il movimento contadino, che aveva ormai fatto il suo
tempo. Va precisato che il proletariato, cioè la massa degli
operai, soprannominati servi della gleba, proveniva dal
mondo rurale ed era costituito per buona parte da emigrati
meridionali.
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Disegno di Angelo Siciliano:(Rocco Scotellaro e le lotte
contadine) |
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Per mettere le
cose a posto va detto che, dopo la fine della civiltà
contadina, il movimento operaio non ha avuto vita lunga.
Superati gli autunni caldi degli anni Settanta, il suo
declino risale al 1980, dopo l’occupazione della Fiat per 35
giorni e la sfilata di protesta, contro quest’occupazione,
da parte dei cosiddetti colletti bianchi per le strade di
Torino. Finiva così la classe operaia, anche se gli operai
continuano ad esistere e a produrre, come d’altronde i
contadini, che oggi si chiamano agricoltori o produttori.
Si tentò in
passato di industrializzare il Sud fornendo incentivi alle
imprese. Ma il progetto non decollò, neanche dopo
l’installazione delle acciaierie di Pozzuoli, ormai
smantellata, e Taranto, che hanno prodotto tondini e lamiere
per anni con problemi seri d’inquinamento ambientale.
La politica
degli anni Settanta e Ottanta, che si basava
sull’assistenzialismo, ha cercato in qualche misura di
ovviare al mancato sviluppo.
Un altro
paradosso è che, essendo entrati da alcuni anni nell’era
postindustriale, Torino, patria della Fiat e città
d’adozione di masse d’emigrati meridionali, è sulla via
della deindustrializzazione. Alcune fabbriche satelliti
dell’industria automobilistica torinese, tuttavia,
continueranno a produrre al Sud, in Campania, Lucania e
Sicilia precisamente a Grottaminarda, a Melfi e a Termini
Imerese , con interrogativi legittimi sia sulle prospettive
di sviluppo della loro attività che per la durata nel tempo.
Non si pone più
la questione Nord-Sud, che ha acceso ed esasperato gli animi
e fatto discutere per decenni. Anche se permane qualche
flusso migratorio verso il Nord, la Bass’Italia non
crea più situazioni d’inurbamento, con tutti i gravi
problemi connessi, nelle città dell’Alt’Italia.
L’Italia, da
paese d’emigrazione, è divenuta paese d’immigrazione. Ora è
l’immigrazione degli extracomunitari a porre nuovi problemi
d’ordine pubblico e di convivenza. È in atto la lotta alla
clandestinità, che spesso alimenta attività illecite, non
ultimo il rischio di terrorismo. Va sanata e regolarizzata
la posizione dei lavoratori stranieri, che sono una risorsa
per il nostro paese. Essenziali sono la loro integrazione
nella nostra società come lavoratori e il riconoscimento dei
diritti acquisiti. A livello politico, si dibatte sulla
concessione del diritto di voto agli immigrati.
Lo scenario
politico nazionale, dopo la riforma del 1993-94, è
totalmente mutato. Con la seconda repubblica sono spariti i
vecchi partiti e le ideologie hanno fatto il loro tempo. Con
il sistema maggioritario, subentrato a quello proporzionale,
e il bipolarismo è cambiato il modo di fare politica, ma al
Sud non si notano i ventilati effetti positivi.
Il Nord
rivendica maggiore autonomia nella gestione delle proprie
risorse, nell’ambito di una riorganizzazione statale di
stampo federalista. Questa riforma, se sarà approvata,
interesserà tutte le regioni a statuto ordinario, comprese
quelle meridionali, che acquisirebbero autonomia di
decisione in alcune questioni di vitale importanza per il
proprio sviluppo.
Resistono i
vecchi sindacati a tutelare i diritti dei lavoratori e dei
pensionati.
Un fenomeno
molto grave, della realtà contadina del passato, era
l’analfabetismo. Una vera piaga sociale. Anche se oggi esso
è debellato, permane una certa disaffezione scolastica,
soprattutto per quanto concerne la scuola media inferiore.
Ad essa, paradossalmente, si affianca da anni la
disoccupazione intellettuale. I giovani diplomati e laureati
meridionali non riescono a trovare al Sud un lavoro
confacente agli studi fatti e alle proprie aspirazioni.
Un’altra piaga
è il sommerso nei vari settori economici. Le punte più alte
di lavoro nero, senza alcuna tutela per i lavoratori, con
evasione totale d’imposte e contributi, si rilevano sempre
al Sud.
Sono sparite la
divisione in classi e le contrapposizioni che
caratterizzavano la società del passato.
Se i giovani
meridionali di una volta erano fortemente ancorati al
proprio mondo arcaico e potevano entrare in contatto con la
realtà esterna, solo per via del servizio militare di leva o
dell’emigrazione, quelli d’oggi assomigliano ai giovani che
vivono nel resto d’Italia, sia per comportamento che per
abbigliamento o tipo d’alimentazione. Sono inseparabili dal
telefonino, destinatari e veicoli essi stessi del
consumismo. Frequentano le discoteche e sono esposti, né più
né meno, agli stessi rischi e tentazioni dei ragazzi del
Nord. Insomma, si sono annullate le distanze culturali del
passato e si può dire che i giovani meridionali, grazie
anche alla tivù e agli altri media, hanno attualmente i
giusti ideali, le informazioni e l’istruzione idonea per
poter contribuire allo sviluppo della propria terra. Ma
bisognerà mettere insieme idee e progetti vincenti,
combinare le opportune sinergie e reperire le necessarie
risorse finanziarie per sperare di realizzare gli obiettivi
fissati. Il computer e le nuove tecnologie informatiche
potrebbero, grazie ai processi lavorativi con le
interconnessioni che consentono il telelavoro, soccorrere i
giovani meridionali e favorire la loro permanenza nei luoghi
natii. Ma questa è solo una delle prossime sfide da
affrontare.
La situazione
agricola nazionale non è rosea. L’Italia, da paese agricolo
che era, oggi importa più della metà del proprio fabbisogno
alimentare. Gli addetti all’agricoltura rappresentano solo
il 3% della forza lavoro e in parte si tratta di anziani, in
linea con l’invecchiamento demografico italiano. Molti
contadini minimi, detti così perché di nicchia, e tanti
piccoli allevatori scontano, assieme ai risparmiatori, i
crac della Cirio e della Parmalat. Tante aziende
agro-alimentari nostrane sono controllate da multinazionali
estere.
Il mondo
contadino meridionale, nell’epoca della globalizzazione, è
attraversato e caratterizzato pure esso da nuovi fenomeni. È
diventato multietnico, ma ancora non è interculturale.
Nelle campagne
collaborano, sempre più spesso, immigrati extracomunitari. I
contadini in età avanzata, la cui aspettativa di vita è
migliorata rispetto al passato, devono affidarsi alle
badanti, anch’esse extracomunitarie, come fanno i vecchi di
città. E pensare che in passato alcune loro figlie, se erano
fortunate, si sistemavano come serve presso le famiglie
borghesi!
Nota
Inizialmente, d’accordo con Giovanni Kezich, direttore del
Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina di S. Michele
all’Adige (TN), il mio intervento allo SPEA8 (Seminario
Permanente di Etnografia Alpina n. 8) del 26 e 27 settembre
2003, “CONTADINI DEL SUD CONTADINI DEL NORD. Studi e
documenti sul mondo contadino in Italia a 50 anni dalla
morte di Rocco Scotellaro” (gli atti del convegno dovrebbero
uscire nel 2004), avrebbe dovuto avere come titolo “Il mondo
rurale che è cambiato anche al Sud: quello scomparso di
Rocco Scotellaro, un altro, quello irpino, recuperato e
rievocato.”
Qualche
settimana prima del convegno, su richiesta del direttore
Kezich, mi accordavo con lui per un mio intervento così
ridefinito nel titolo e nel contenuto:“Un patrimonio
ritrovato nel dialetto irpino dell’Ottocento”.
A me
dispiaceva cestinare la parte, che nel frattempo avevo già
scritto, inerente al mondo scomparso di Scotellaro. Allora,
separando e integrando opportunamente con altro materiale
quanto prodotto fino a quel momento, sviluppavo due
relazioni distinte con i seguenti titoli: “Il dopo
Scotellaro: trasformazioni epocali nel mondo contadino
meridionale” e “Un patrimonio ritrovato nel dialetto irpino
dell’Ottocento”.
Tutte le
parole dialettali, innestate nel testo di questa relazione,
appartengono al mio dialetto irpino che è molto simile a
quello lucano.
Alla
memoria di Rocco Scotellaro e Manlio Rossi Doria,
intellettuale, meridionalista ed economista di valore, con
cui ebbi un breve scambio di corrispondenza nel 1987, dedico
la mia poesia Al risveglio, che mi pare ben
rappresenti il mutato mondo contadino meridionale.
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AL
RISVEGLIO*
S’è
fatta notte fonda
al
paese
dove a
ogni casa
il
frigo sta alla cantina
la tivù
al focolare
non c’è
fuoco di quercia
che
sfavilli né cunti.
Da
tempo una cultura
maligna
s’è
troppo radicata
come
una donna presa
con
forza tante volte
ci si è
assuefatti alle violenze.
Al
risveglio del cuore
spera
un vegliardo tra gli ulivi
con le
nacchere tra le dita:
chissà
che non torni
ai
giovani
la
voglia a favellare.
Da CONTROPAROLE,
antologia di 13 poeti trentini contemporanei, curata da
Giuseppe Colangelo; edizioni ARCA di Trento, 1994.
Zell, 25 settembre 2003
Angelo Siciliano
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