LO ZIO D AMERICA di Angelo Siciliano Presentazione di Mario Sorrentino
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Materiali tradizionali Come in un certo posto delle campagne del nostro paese, un posto chiamato Le Bolle per dirla in italiano, in cui a causa di esalazioni di metano, credo, o zolfo ribolle il fango e si espande un odore forte che rende l’aria come più spessa e irrespirabile, così anche nella sezione che raccoglie materiali tradizionali vi sono forti odori e sono suggerite emozioni, e sensazioni a volte brutali ed eccessive. Emerge un sentire arcaico, sensi che colpiscono e meravigliano. Non è dato ritrovarli di solito così forti nella letteratura in lingua, né in quella dialettale, se non ritornando molto indietro nella loro storia. Ad esempio, nella letteratura del volgare italiano delle origini. Rifacendomi ad una confidenza dell’autore, dirò che sembra che egli abbia rimosso il tappo di un cratere ed avviato un’eruzione di materiali incandescenti che, con esplosioni e dilavamenti, devastano tutto all’intorno. Ho detto, in un’altra circostanza, che la nostra zona di origine poteva essere chiamata Terra del silenzio, poiché ad un osservatore estraneo non ha mai prima d’ora comunicato alcunché del suo sentire, né della sua particolare concezione del mondo. Tralascio ovviamente di considerare studi etnografici e folclorici per aree contigue, che potrebbero essere considerati validi anche per il nostro territorio. Io voglio insistere sul nostro paese e sul fatto che la raccolta di Angelo Siciliano è di tipo letterario e scritta. Forse è proprio a causa di questo lungo silenzio, che ora emergono materiali antichi, arcaici, i cui equivalenti in altre letterature si sono oralmente svolti, che so?, intorno al Mille o anche prima e per analizzarli bisogna ricorrere a modelli di prosodia desueti. Bisogna riparlare di prosa ritmica (e viene in mente Il Cantico delle Creature e altre composizioni umbre delle origini); fare accostamenti alle recitazioni solenni del calendario ecclesiastico (il Venerdì Santo, i panegirici dei santi, ecc.); ripensare ai novellatori e alla trasmissione della saggezza tra generazioni, consegnata in modo gnomico a detti e a “cunti”; ripensare ai canti funebri e alla loro funzione, oltre che di consolazione, di vero e proprio intrattenimento degli ospiti, con la narrazione della biografia del morto (lodi mescolate a bonarie prese in giro). Per accostarmi in modo intimo all’opera, isolerò una composizione che, secondo me, contiene, più di altre, elementi arcaici. Arcaismi che consentirebbero comparazioni etnologiche e di storia delle religioni, poiché sono comuni a tradizioni, solo apparentemente molto distanti dalla nostra.
Un eminente studioso delle religioni, Mircea Eliade, in un suo studio, Images et symboles, Parigi, 1952, propone un’efficace sintesi del simbolismo legato ai luoghi sacri definendolo con il termine di centro. Il centro, per Eliade, è il punto di intersezione tra i tre livelli nei quali, in modo universale, i popoli della terra suddividono il cosmo: il Cielo, la Terra e gli Inferi. Parlando del centro egli dice: “E’ qui che può accadere una frattura dei livelli e, nello stesso tempo, stabilirsi una comunicazione tra queste tre regioni”. Ora, nel componimento di Siciliano intitolato Li ‘mbóddre (Le Bolle), è narrato che un taverniere, che dava da mangiare carne umana ai suoi ospiti, è scaraventato da Cristo, che passava di là, all’Inferno insieme alla sua taverna. Dopo di che, in quel luogo, la terra ribolle un po’ per avvertimento ai peccatori, forse, e un po’ perché è rimasta aperta la via per l’Aldilà. Per la nostra gente è fuor di dubbio che lì vi sia uno di questi centri di cui dice Eliade. Lì il divino, l’umano e il demoniaco (con una particolare commistione di questi due ultimi livelli, se si pensa all’antropofagia) sono entrati in contatto e restano in contatto. Perciò, per me Li ‘mbóddre è un testo di alta rilevanza folclorica e conserva, rivestiti di forme cristiane, aspetti delle credenze primitive dei nostri antenati irpini. E ciò per un’altra riflessione legata alla teoria del centro. In ogni cultura si crede che presso il centro d’intersezione dei tre livelli cosmici, si manifesti qualcosa del Caos originario. Un qualcosa che, la palude ribollente delle nostre campagne testimonia molto efficacemente. Un altro elemento arcaico, il taglio della testa degli ospiti destinati a rifornire di carne il taverniere, mescola forse contenuti sacrali (il rituale della mietitura, di popolazioni trasformatesi da cacciatori in coltivatori?) e, chissà?, storici (l’antropofagia delle grandi carestie intorno al Mille?). Lascio a voi l’approfondimento della questione. Nuove creazioni d’autore
Ho già detto a Siciliano, in altra
occasione, che le poesie d’argomento attuale di questa raccolta
non mi sembrano così belle, come quelle che compone e pensa in
italiano. E ciò perché presumo che egli le abbia soltanto
rivestite della forma dialettale. Mi rimangio in parte questa
critica perché, ad una più attenta lettura dei testi, ho scoperto
dei componimenti che, pur essendo sicuramente di nuova creazione,
stabiliscono come un ponte verso la tradizione e fanno ricircolare
del materiale che può avere valenza anche per il mondo di oggi, in
cui forti sono le preoccupazioni per gli ultimi mutamenti della
nostra società. Il componimento, di cui tento una rapida analisi,
riguarda il ruolo della donna.
Nei riti d’iniziazione di molte
culture cosiddette primitive, il ruolo di addottrinamento
riservato alla madre, verso il figlio maschio, è molto ridotto.
Spesso però è lei che presenta al figlio il mondo femminile. In
questa poesia che adopera ricordi d’infanzia dell’autore, anche se
in modo non dichiarato, è avvertibile la presenza della madre. Che
la presentazione del mondo femminile paesano sia fatto dalla
madre, traspare da una certa curiosità attenta, soprattutto al
modo di vestire, di pettinarsi, a una certa civetteria degli
atteggiamenti descritti che normalmente sfugge agli occhi
maschili.
Nonostante sia un mondo presentato
da una donna, appare in un certo qual modo separato, come posto su
un palcoscenico. Passato in rassegna a gruppi e a figure singole,
senza protagoniste né prime donne; con l’unica distinzione non
dichiarata tra contadine e donne che, con espressione
significativa tipicamente paesana, erano dette di “dinta”, cioè di
dentro, del paese opposto alla campagna. Quest’avverbio, ad ogni
modo, non stava ad indicare l’abitazione, poiché come si sa
(tramite Carlo Levi, ad esempio) abitavano entro le mura del paese
anche i contadini. Di “dinta” erano i signori e i piccoli
borghesi, e con quest’espressione si voleva semplicemente dire che
quelle persone non erano costrette ad andare in campagna, per
guadagnarsi da vivere. Vivevano perciò, si può dire, protette nel
chiuso delle case.
La distinzione di classe,
soggiacente a questa poesia, fa operare un’alternanza di
presentazione delle figure femminili. Iniziando dal primo verso e
sino al ventottesimo, sono presentati cinque gruppi più tre
ritratti di borghesi contraddistinte più che altro dal modo di
pettinarsi, truccarsi o atteggiarsi. I giudizi indiretti, ma molto
trasparenti sono totalmente negativi. I ritratti riguardano
antipatiche o tipe ridicole.
Dal ventinovesimo al
cinquantaseiesimo verso seguono gruppi e ritratti, e contadine
raffigurate in atti concreti o in azioni emblematiche. È in questa
sezione del componimento che ci è dato di capire, che si tratta di
quell’istruzione al figlio di cui ho detto; di indicazioni per
l’orientamento del figlio maschio, che quanto prima sarà alle
prese con un mondo, tutto sommato pieno di insidie.
Segue una sezione (dal v. 54 al v.
63) che sarei tentato di definire, di contadine in via di
“promozione sociale” (ma non sempre questa agli occhi dei
contadini era giudicata positivamente). E si parla di mogli o
figlie di contadini, padroni della terra o altrimenti avvicinatisi
al mondo piccolo borghese. Queste donne, in un certo qual modo,
copiano modi di fare delle borghesi, mostrano malizia e ambizione.
Chiude il componimento una tenzone a
parole con un maschio (i paralleli, certamente meno crudi, sono da
ricercarsi nella letteratura italiana delle origini; ad esempio,
nella scuola siciliana). Il contrasto è vinto dalla donna con un
buon detto che mette a posto il corteggiatore sfacciato. E con
un’allusione, si può dire ancora più sfacciata. Aprire la gonna è
molto chiaro in qualsiasi contesto. Dei tre ultimi versi, cornice mesta e buia, parlerò tra poco. Breve analisi prosodica al componimento sulle donne
Il numero delle sillabe dei versi è
vario e non strutturato. Si oscilla tra l’endecasillabo (ma con
accento libero), il novenario e il settenario. Ma vi sono altri
numeri ancora.
Notevoli le allitterazioni. Nel v.
5, “fiérru di li fusìlli”; nel v. 6, allitterazione finale,
assonanza e chiasmo combinati insieme: “Dòppu ca ‘ncòpp’a”; altre
allitterazioni: “Cadéni la caniglióla”, “camminàvunu cu li
capìddri”, “cócchidùna cu la cipria”, e ultima, distesa in due
versi: “muórtu… ammalùta… murtificàta.”
In una breve sezione (dal v. 21 al
v. 28) vi è una costruzione che, sulla scorta del formalista russo
Brik, chiamerei di tipo ritmico-sintattica. Lo schema fonetico è
rinforzato dalla ripetizione sintattica, anche se con variazione
logica delle dipendenti circostanziali.
A mo’ di conclusione. Da quel mondo
femminile non c’era da attendersi molte gioie o esaltazioni: le
donne del paese potevano essere temibili avversarie, potevano
rovinare la vita. In fondo, però, scatta una fratellanza con esse,
mista a commiserazione, allorché le si fa depositarie della
memoria dei Lari, legandole ad un lutto in molti casi perpetuo.
Il lutto e la morte chiudono il
tutto. Ma questo mondo è quasi evocato per poterlo scongiurare,
per consegnarlo al passato. E’, in fondo, un mondo da cui siamo
usciti.
Si allegano i testi di Li ‘mbóddre e Li ffémmine di lu paese analizzati nella relazione.
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