Una realtà variegata
con diverse categorie di uomini e donne,con differenti
patologie, trattati sovente come scemi del villaggio.Ma che cos’è la mattìja o paccìja? È la follia, la
pazzia, ossia una grave alterazione mentale di una persona che, a
prescindere dal sesso, dal ceto sociale d’appartenenza, o categoria
professionale, assume un comportamento strano, stravagante, assurdo,
incomprensibile, irresponsabile, eccessivo e talvolta violento. Insomma
il matto non sa dar conto né rispondere dei suoi atti o misfatti. E chi
lo osserva dal di fuori, di quel comportamento ne coglie gli aspetti
alterati, la diversità e si rende conto che lì qualche rotella non
funziona.È notorio che sono considerati un po’
matti gli artisti, soprattutto quando, a causa della loro carica
creativa, o dell’incomprensione di cui si sentono vittime, si comportano
da bastian contrari. E in certi casi sarebbero considerati tali anche
poeti e musicisti, e altri creativi, la cui natura geniale potrebbe
portarli a rasentare certi limiti propri della follia.
Angelo Siciliano -"I matti di paese"
La follia, questa subdola sconosciuta,
non fa quindi differenze tra classi sociali o categorie professionali,
nel senso che può cogliere chiunque, costringendolo poi ad un calvario
personale, talvolta infinito e senza via d’uscita. Tuttavia, per quanto
riguarda il suo trattamento e la sua cura, qualche differenza, o meglio
discriminazione, l’ha sempre fatta, nel senso che i matti poveri erano
affidati a qualche manicomio, e lì gioco forza abbandonati, quelli
ricchi potevano cavarsela molto meglio in qualche clinica privata.Quindi, la sventura peggiore per un
matto era ed è quella d’essere povero. E la povertà, in questi casi, è
sinonimo di solitudine, dimenticanza, abbandono, anche da parte dei
parenti prossimi. Soprattutto quando ad avere il sopravvento è il
pregiudizio.Vari tipi di patologie, differenti tra
loro, facevano rientrare alcune persone nella categoria dei matti di
paese: depressione, psicosi, nevrosi ossessiva, paranoia, schizofrenia,
deficit d’intelligenza, demenza, autismo. Tra essi rientravano anche
alcuni di coloro che oggi sono definiti “diversamente abili”, con un
eufemismo che non toglie nulla alla gravità del loro stato. E a questa
definizione la società civile è arrivata applicando il cosiddetto
“politicamente corretto”, dopo essere passata attraverso le definizioni
di handicappati, portatori di handicap, disabili.In paese erano considerati matti
impropriamente pure i minorati psichici.I matti di città erano e sono diversi,
perché trattati differentemente. In genere essi vivono da solitari. Sono
pressoché invisibili. Nessuno si permette d’importunarli o fargli
sberleffi. Se qualcuno di essi sproloquia o dà in escandescenze, si fa
finta di nulla. Si tira avanti per la propria strada, si fanno spallucce
e ciascuno tiene per sé le proprie considerazioni. Di qualcuno che è
andato fuori di testa, la comunità s’accorge quando lui fa allertare le
forze dell’ordine, perché diventa un pericolo per sé o per gli altri, o
commette un crimine. E in questi casi la gente fa commenti amari
addossando responsabilità e colpe al personale dei servizi sanitari di
competenza, per la scarsa attenzione e la prevenzione non posta in atto
per la patologia latente di quel soggetto.I matti di paese, invece, facevano
colore e calore. Erano parte integrante del paesaggio umano e urbano.
Interagivano con i compaesani, cercando complicità e solidarietà. Erano
il vaccino ambientale contro la follia. Non rappresentavano modelli di
comportamento. Al contrario non si doveva fare o diventare come loro.
Erano i puri di cuore, e allo stesso tempo i prototipi
dell’abbrutimento, a causa della patologia o della fatica cui erano
costretti. Erano un sismografo affettivo degli umori paesani. Alcuni di
loro perdurano ancora, nella memoria della gente, come icone dell’album
dei ricordi collettivi e servono a riannodare i fili di una storia
nostalgica quasi dimenticata.A volte la loro patologia si
manifestava come una demenza permanente ma innocua. Quindi essi potevano
continuare a vivere e a collaborare in qualche attività nella realtà
paesana. Erano soprattutto questi gli scemi del villaggio che
“allietavano” – si fa per dire – i momenti d’euforia e ilarità generale,
indotta da li strazza siquiésti e li ‘ngappalàpi, i buontemponi e i
perdigiorno del paese. Insomma diventavano per anni zimbelli di tutti
nel paese.Rappresentavano i soggetti deboli del
branco. E su di loro, come capita in un branco di lupi, in cui tutti
scaricano frustrazioni e stress sull’ultimo componente del branco in
ordine gerarchico, lo stesso succedeva tra i componenti della comunità
paesana.Altre volte la patologia era molto più
seria, al punto che i matti rappresentavano un pericolo per sé e per gli
altri, perché diventavano molesti e violenti. In questi casi si rendeva
necessario il loro ricovero e finivano al manicomio d’Aversa, le cui
porte si chiudevano inesorabilmente alle loro spalle. Da quel reclusorio
infernale alcuni non tornavano più. Le famiglie non ne rivendicavano la
liberazione, poiché non erano in grado di accudirli. Quando si
diffondeva la notizia che qualche compaesano, lì rinchiuso, era
deceduto, si malignava che gli avevano somministrato nu bbicchiròcciu, una pozione letale, e
l’èrn’ammasunàtu pi ssèmpe, l’avevano addormentato per sempre.Diversi matti del paese, una volta
varcato il cancello del manicomio, erano dimenticati. Ne sarebbero
usciti solo da morti. La loro salma non era nemmeno reclamata dalla
famiglia. Il funerale avrebbe aggiunto altra vergogna e fatto parlare la
gente. Ma nel cuore delle madri di quegli sventurati permaneva una
ferita che non si cicatrizzava. Erano piantate nei loro cuori le croci
di una sofferenza infinita e silenziosa.Qualche madre, addolorata per la
patologia che affliggeva il figlio, esclamava con espressione rassegnata
e carica di pena: «Puru fìglimu
avéss vulùt’èss mègliu di l’ati!», «Pure mio figlio avrebbe voluto
essere migliore di altri!».Una madre non volle dare a suo figlio
il nome Angelo, com’era desiderio della suocera, perché in paese alcuni
uomini che avevano quel nome,
Angilìllu, erano matti e i loro
soprannomi erano Luóppu,
‘Nzònzò, Raudìniju, Vintidóje; trasandato, granturco, ventidue. Insomma
il pregiudizio verso un nome poteva assumere, come nel caso di questa
madre, un valore scaramantico contro la pazzia.C’era un esaltato, Paccóne,
qualche decennio fa, che andava in giro cu n’accittùddru, piccola
mannaia, infilata nella cintola dietro la schiena. E portava sempre con
sé un cane, legato con una corda spessa, succube compagno di sventura.
Irascibile, urlava per nulla. Inveiva contro chiunque gli risultasse
antipatico e spaventava le persone. Un giorno fu bloccato e disarmato
dai proprietari di un supermercato, dove lui soleva entrare con
l’intenzione di asportare della merce senza pagare. L’arma impropria fu
consegnata ai carabinieri e lui finì rinchiuso in manicomio da dove non
uscì vivo. Con questo matto nessun paesano si permetteva di pigliàrisi la pizzicàta, prenderlo in
giro.«Ariòp, Ariòp, ammàglia, ammàglia!», «Harry
up, harry up, rumina, rumina!», così era preso in giro un povero
frustrato del paese, costretto a rientrare dall’America all’inizio del
Novecento, perché senza né arte né parte. E lui, imbufalito, ogni volta
raccoglieva da terra dei geodi,
vricci o mazzacàni, e li scagliava, con quanta forza avesse, contro chi
lu ‘ncimintàva, lo prendeva in
giro.Giuvànnu lu mattu, che aveva qualche
deficit intellettivo, faceva lu
spijazzìnu, lo spazzino, ma non permetteva che lo si prendesse in giro.
Scupàva li bbìji di lu paése cu
na scópa di vruscégli. Arrunàva
mmuzzùni di sigarètt pi ‘n terra, jinchéva la pippa di créta e ffumàva,
trimènt ca vuttàva la carijòla cu la munnézz. Scopava le vie del paese
con una scopa fatta di pungitopi. Raccattava mozziconi di sigarette per
terra, riempiva la pipa di creta e tirava boccate, nel mentre che
spingeva la pesante carriola di legno colma di rifiuti.Siliviùcciu
faceva il campanaro. Quando qualcuno, pur sapendo che non vi erano stati
decessi in paese, per stuzzicarlo gli chiedeva chi fosse morto, egli
rispondeva: «Nóne nóne, mànnunu,
mànnunu!», «Nessuno. Mangiano, mangiano!». Talvolta andava a prendere
l’acqua ai fontanini, su richiesta di qualche famiglia, con un barile in
spalla e arrancava per le ripide vie del paese, fatte di gradoni ad
acciottolato.Amaliùcciu,
detto capucchjóne, era esposto
ad essere lo zimbello di tutti. Le sere di festa, in paese, capitava che
ciucai e mazzieri, un po’ avvinazzati, lo mettessero in mezzo e gli
davano tanti di quei ttìppiti
sul naso, colpi col dito indice spinto a scatto dalla sua pressione
contro il pollice curvato, e glielo riducessero rosso e gonfio come un
peperone. E giù risate, sberleffi, prese in giro, e scorci di milóne,
scorze d’anguria, scagliate sulla sua povera zucca rapata. Qualcuno poi,
facendo finta d’essergli amico, lo circuiva e gli infilava un foglio di
giornale arrotolato in una tasca della giacca. Prontamente, un altro gli
appiccava il fuoco. E Amaliùcciu
cominciava a saltare. Gli si faceva la folla intorno. Insomma, tanta
violenza gratuita a danno di un poveretto. E tutti a divertirsi gratis.
Lui assurgeva ad involontario artista di piazza. E nessuno che levasse
un dito per difendere quel poveretto, o che facesse un gesto per
sottrarlo dalle grinfie di quei buontemponi tremendamente cinici.Angilìllu Luóppu, reduce dal carcere
per parricidio, perché aveva sorpreso suo padre vedovo a letto con sua
moglie, e l’aveva ucciso con l’accetta, lavorava come un somaro e si
portava dentro quel delitto familiare che gli pesava come un macigno.
Molto più del barile pieno d’acqua che portava perennemente in spalla,
per rifornire le famiglie borghesi del paese.Filìci Pisciarèlla, anche lui con
qualche deficit, era un logorroico. Si raccontava che da ragazzo, una
notte dei morti, si fosse addormentato in piedi ‘nd’à lu succòrpuru,
l’ossario del cimitero. Il custode l’aveva chiuso dentro e lì l’aveva
ritrovato il mattino successivo, tranquillo e senza il terrore che una
persona normale avrebbe avuto, per aver pernottato in compagnia dei
morti. Parlava instancabilmente senza mai sputare per terra. Andava a
giornata a zappare. E zappava come gli riusciva. Capitava che a pranzo
si mangiasse ali di pollo nel ragù. Lui felice esclamava: «Ah, oggi
abbulàmu!», «Ah, oggi si vola!». A fine giornata tutti prendevano la
propria paga. Lui la rifiutava, schermendosi che dei soldi non sapeva
cosa farsene.Muscìllu,
e cche nni vulìvi?, Micino, cosa si poteva pretendere da lui? Era una
persona mite per eccellenza, timida, che vestiva con una sua personale
eleganza e si sottraeva all’invadenza altrui con mosse agili e furtive,
alzando i gomiti come a difendersi la faccia.Fidéle Gnucché, innocuo, silenzioso,
servizievole, una figura neutra e innocua. Legava l’asina dove voleva il
padrone, che per lungo tempo fu
lu cantiniéru Lisàndru Caccese, all’inizio del Trappeto.Simintiéddru,
Simintiello, ero lo storpio che terrorizzava i bambini. La coppolona in
testa, i baffoni, la barba non rasata, il bastone in mano, che sapeva
far roteare come una clava, era una sorta di Mammulóne,
Gatto Mammone. Atterriva i bambini su richiesta dei genitori, affinché
questi potessero poi meglio controllarli, dopo averli così inibiti: «Simintie’,
magnatìllu, magnatìllu!», «Simintie’, màngiatelo, màngiatelo!». E lui
andava a nozze, con le sue pantomime. Gli piaceva essere ricordato come
un orco. E la sua era una parte che sapeva recitare alla perfezione.E ve n’erano sicuramente altri prima di
questi matti. Tanti, perché i deboli, che avevano la sventura d’essere
anche molto poveri, erano destinati a la mattìja. Erano i diversi per
eccellenza, nella realtà paesana divisa in classi: nobili, signori,
borghesi, artigiani, massari, contadini, ciucai, braccianti.Le loro vite segnate, in certi casi
perdute, sempre vite erano. Anche se viste dall’esterno apparivano come
esistenze misere e tremendamente inutili per se stesse.
Angelo Siciliano - "I matti portatori"
Tuttavia, non vi era solo chi era
capace di sfoggiare soltanto cinismo per divertirsi. Vi erano anche
tante famiglie che i matti li aiutavano realmente, impegnandoli in
qualche lavoro e consentendo loro di non oziare e di guadagnarsi un
tozzo di pane.Qualche ragazza con deficit
intellettivo, di solito non era presa in giro come poteva capitare ai
maschi con identica patologia. Mentre costoro avevano libertà d’azione e
inevitabilmente potevano entrare in contatto con dei disturbatori, le
ragazze erano controllate e meglio tutelate dalle proprie famiglie. E
tuttavia poteva capitare che fossero circuite da qualche maschio
spudorato, subissero abusi sessuali e ne risultassero ingravidate.
Quando si trattava di minore, la famiglia portava la questione in
tribunale, e c’era anche qualche condanna per l’ingravidatore che si
faceva un po’ di carcere. Ad una di queste ragazze, che aveva messo al
mondo un neonato, che la famiglia aveva spedito alla Sacra Rota, se le
chiedevano dov’era suo figlio, lei rispondeva: «Era bèllu ninnu miju!»,
«Era bello il mio bimbo!».Parole come mattu, mattìgnu, mattóne, mattòscila,
mattìja,’m paccìja, pacciu,
paccìja, paccióne, pacciuògnu, verbi come mattìjani
e paccìjani, frasi come jà la mattìja, jà la paccìja, e il
soprannome Lu Paccióne hanno
tutti a che fare con la follia.Oggi per i matti è differente rispetto
al passato. La legge che porta il nome di Franco Basaglia, psichiatra
illuminato e sempre in prima linea, fu approvata dopo molte battaglie.
Essa prevedeva la chiusura dei manicomi. Sarebbe così cambiata
radicalmente la vita dei malati di mente. Una specie di rivoluzione, a
cui guardavano con curiosità e interesse anche alcuni psichiatri
stranieri. Ma ce ne sono voluti d’anni prima di chiudere definitivamente
i manicomi!Ma i matti oggi dove sono? Sono in
mezzo a noi, invisibili. Dimorano in strutture aperte, gestite o
autogestite. Anche prima erano invisibili, ma solo perché erano chiusi
fisicamente in manicomio, affinché fossero isolate le loro menti.Tuttavia, la legge Basaglia oggi è
posta in discussione, perché non ha portato i risultati sperati. Anche
perché è stata in parte disattesa e mancano certi servizi, e quelle
strutture che essa prevedeva.(Questo testo è fruibile nel sito
www.angelosiciliano.com).Montecalvo, 12 marzo
2006 Angelo Siciliano